Domenico Di Bari, sapori a sud est

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Domenico Di Bari ha lo sguardo concentrato di chi trattiene a stento l’entusiasmo e la passione per il suo lavoro. Lo abbiamo incontrato allo Zafferano Bistrot, ristorante accoccolato nella cornice frondosa e quieta dell’Hotel Caol Ishka, a Siracusa.

Al Caol, il sole della costa orientale siciliana si addolcisce fra le piante, i canneti e gli angoli di quiete pensati per i clienti. Il giardino dietro la cucina accoglie spezie e aromi chi sanu belli e sono coltivati personalmente dallo chef, classe 1976, nato e cresciuto in Puglia e arrivato a Siracusa nel maggio 2015. Domenico Di Bari segue con lo sguardo la figlia Cloe, passata a trovarlo dopo la mattinata al nido, e nel mentre, racconta di piatti, idee e della magica fusione fra sapienze culinarie diverse.

Cloe è ricca di ricci pieni e divertiti, tenuti fermi, ma non troppo, da due fermagli rosa. Se sorride è per dirti che vuole assolutamente inerpicarsi sulle scalette in legno che portano all’imbarcadero delle canoe che, nei pressi della foce del Ciane e dell’Anapo, fra i canneti, conducono discrete verso Ortigia.

Domanda: Benvenuto su Gusto News a Domenico Di Bari, chef pugliese in terra siciliana. Raccontaci di te, gli anni della formazione, come sei arrivato nella cucina dello Zafferano.

Domenico di Bari: Sono nato a Ceglie Messapica, in provincia di Brindisi, e sono nipote di vecchi ristoratori degli anni Quaranta del secolo scorso. I miei nonni avevano una cantina e io e mio fratello abbiamo ereditato da loro la passione per questo mondo. Tant’è che mio fratello, che vive e lavora in Salento, ha una sua enoteca mentre io ho portato avanti la tradizione della ristorazione.

Non ho seguito un percorso di studi tradizionale né frequentato un istituto alberghiero, ma mentre studiavo ragioneria e in seguito giurisprudenza, non ho mai smesso di lavorare nelle cucine dei ristoranti e giorno dopo giorno sentivo che questa forte passione sarebbe diventato il mio lavoro, la mia vita.

Ho sempre studiato tanto, mi sono ispirato a quelli che considero i miei maestri di elezione, Davide Scabin, Cristina Bowerman e Massimiliano Alajmo, anche se considero maestri tutti coloro con cui ho lavorato, a partire dalla prima, che non dimenticherò mai, la signora Anna che gestiva una trattoria storica di Lecce. In seguito ho incontrato la cucina gourmet e l’uso dei prodotti di qualità.

D: Sappiamo che hai un’esperienza variegata e complessa grazie alla quale hai costruito il tuo lavoro, oltre ad aver lavorato a Roma per parecchi anni, sei stato anche all’estero: cosa ti è rimasto di queste esperienze?

R: Sono vissuto in Spagna e ho dovuto dimenticare l’uso della pasta perché non usano cucinare primi piatti come in Italia, ma sono dei grandi artigiani per gli antipasti e i secondi piatti. In Galizia, dove ho lavorato, usano moltissimo crostacei e mitili, come la cozza dell’Atlantico che ha un suo perché, nonostante, da italiano, sia difficile ammetterlo.

Un altro paese in cui ho lavorato, anche se per poco, è la Malesia. A Kuala Lumpur ho sperimentato un’altra tradizione culinaria dalla quale ho mutuato le tecniche di lavorazione di alcuni tipi di pesce. Viaggiare mi ha sempre suggestionato positivamente: ho scoperto che lavorare il tonno e altri pesci al modo dei giapponesi, elaborando le ricette in base al contesto locale in cui opero, mi permette di portare al cliente piatti sempre freschi e gustosi.

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D: Potremmo definirti uno sperimentatore?

R: Piuttosto, direi che non avendo studiato secondo un percorso tradizionale, credo sia fondamentale lavorare e studiare contemporaneamente, leggere molte pubblicazioni del settore. Leggendo e studiando, mi rendo conto di avere delle intuizioni che spesso collimano con l’evoluzione che sta avvenendo nel mondo della ristorazione. Il menu che abbiamo studiato per lo Zafferano, infatti, è un ottimo esempio di ciò che accade nelle cucine d’Italia e di tutto il mondo: la possibilità di prendere il meglio delle tradizioni culinarie, delle tecniche di cucina e la selezione sapiente di prodotti locali di qualità unita alla ricerca di prodotti nazionali unici come i DOP oppure i presidi Slow Food.

Faccio due esempi che mi stanno a cuore: da un lato mi sovviene la considerazione di Bottura che afferma che la cucina è arrivata a un punto tale di tecnica che non possiamo più permetterci di cucinare come si cucinava una volta, e dall’altro, recentemente ho scovato un testo dell’alberghiero in cui ancora si presentano le Penne alla vodka, una ricetta molto anni Ottanta che non ha più a che vedere con quello che possiamo gustare nei locali oggi e che siamo ormai abituati a ricercare.

D: Quanto della tua cucina è tipicamente pugliese e come ti poni nei confronti della tradizione culinaria siciliana.

R: Utilizzo i prodotti locali, qui in Sicilia c’è una disponibilità e una qualità eccezionali. La differenza peculiare è nella tecnica di preparazione: in Puglia abbiamo una matrice più greca, più bizantina, diversa dalla tecnica culinaria siciliana, che ha una matrice araba.

In Puglia noi abbiamo sempre lavorato sul crudo e sulle preparazioni più immediate, meno elaborate, un esempio tipico è la colazione barese proprio a base di crudo di pesce al mercato mentre lo si acquista. La particolarità del siciliano, invece, è che un grande artigiano della conserva, basti pensare a quello che fanno tuttora con il tonno o con le confetture di pomodoro ciliegino. Stessa cosa accade proprio in Galizia, che è un territorio che ha molto risentito dell’emigrazione siciliana e campana avvenuta nel Settecento, quando molti siciliani e napoletani partirono per la Spagna in cerca di fortuna. Un prodotto tipico delle conserve galiziane è l’alice, tipico tanto quanto lo è per la zona di Cetara, in provincia di Salerno. Dopo la mia esperienza di lavoro in Spagna, amo ancora molto usare proprio l’alice del Cantabrico.

Come dicevo, la cucina pugliese quindi è più istantanea e culturalmente è diversa, credo sia anche una questione climatica: si conserva dove c’è molto freddo oppure molto caldo. La Puglia a parte la zona del Salento, è una regione abbastanza mite, il pesce infatti viene lavorato sempre in maniera espressa, penso alle seppioline baresi che vengono mangiate crude o al quinto quarto della seppia. Se si parla di pesce in Puglia, si pensa al crudo, mentre la Sicilia presenta delle preparazioni che potremmo definire più barocche, ma sempre di un gusto mediterraneo ineguagliabile.

Nella cucina dello Zafferano gli ingredienti siciliani sono sempre presenti, ma le tecniche che uso sono più pugliesi. Anche se i miei piatti risentono sempre di viaggi e di incontri che ho fatto durante la mia carriera, mi viene in mente un piatto che riunisce Puglia, Lazio e Sicilia: orecchiette lavorate a Barletta condite con la tecnica del cacio e pepe che è romana e con il battuto di tonno fresco con polvere di pistacchio, per un abbraccio tipicamente siciliano.

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D: Come viene progettato il menu dello Zafferano?

R: Il progetto di un menù è cosa assai complessa, noi non ci lasciamo influenzare dalle mode o dalle tendenze ma dalle nostre radici e dalla nostra sensibilità. Così riteniamo di poter incontrare il consenso del cliente, unico protagonista del Caol Ishka & Zafferano Bistrot.

È un menu sicuramente stagionale e può cambiare di settimana in settimana. Adesso abbiamo inserito lo sgombro secondo una preparazione già in uso nella scorsa stagione (rientra tra gli evergreen del menù degustazione del Caol). Amo molto lo sgombro, perché nonostante si ritenga abbia un sapore eccessivamente deciso, tanto che il novantanove per cento dei clienti preferisce il tonno. Noi qui al Caol Ishka riteniamo una scelta vincente lavorare su pesci locali come lo sgombro, il tonno palamito, il Tonno Bianco, la ricciola. Sono prodotti eco-sostenibili, dai prezzi contenuti, con il valore del chilometro zero.

D: Primi, secondi o contorni?

R: Io ho sempre fatto il capopartita dei secondi e dei primi, a me piace il secondo, ma sono un cuoco del sud e lavoro molto bene la pasta secca. L’anno scorso ho lavorato tanto con la pasta fresca fatta con farine di grani antichi: ho preparato uno gnocco con la Perciasacchi, ciceri e tria con la farina Russello, uno gnocco con il Grano Arso e la Patata Siracusana. Gli gnocchi scuri di Grano Arso fanno un bel contrasto con il tonno bianco, direi che è un piatto che suscita una certa ilarità, perché istintivamente lo gnocco viene scambiato per tonno e il tonno per gli gnocchi.

Non ricordo su quale sito c’era un articolo in cui si affermava che un grande errore dei cuochi del sud Italia è non preparare più piatti con la pasta secca, che è storicamente nostra perché è prodotta con la farina di grano duro, tipicamente meridionale, e non con la farina di grano tenero che si presta di più alla produzione di pasta fresca ed è tipica delle regioni del nord. Perciò quest’anno lavoriamo con lo spaghetto di Gragnano, il fusillone, il mezzo pacchero, una linguina, tutte tessiture diverse dalla pasta fresca.

D: Secondo te chi è il più predisposto, il cliente italiano o lo straniero, alle novità o alle sperimentazioni?

R: I più grandi gourmet sono i bambini. Se un bambino ti dice che quello che hai cucinato è buono, hai vinto. L’anno scorso mi ricordo che c’era un bambino al quale feci un piatto molto veloce con il peperone, mi diede 10 e per me fu una grande gioia. Se una cosa non gli piace, i bambini te lo dicono, non si fanno coinvolgere dalla moda del momento.

A degli ospiti vegani abbiamo fatto delle torte all’acqua che erano deliziose perché le esigenze dei clienti sono molto variegate, perciò sostengo che noi chef siamo degli artigiani che vivono quattordici, anche sedici ore al giorno in una cucina. Siamo come il falegname che modella il legno: trasformiamo gli alimenti, facciamo mangiare tutti.

D: Pensi ci sia stata un’effettiva evoluzione del gusto oppure occorre ancora lavorare su questo?

R: Si parla di dover sempre inventare qualcosa, molti dicono che è stato inventato tutto. Adesso siamo in una fase di ritorno alla tradizione unita alla modernità (è di tendenza sostenerlo) e sembra che non stiamo inventando nulla, ma bisogna vedere come ti approcci al cibo.

Più che tradizione io parlerei di memoria storica del gusto. Penso a Pino Cuttaia, cha fa una pasta alla Norma in terrina, quasi una pasta “incasciata”.

Gli alimenti cambiano, noi cambiamo in base agli alimenti che mangiamo e la cucina necessariamente deve cambiare. Adesso nelle cucine abbiamo gli abbattitori e questa tecnologia ha cambiato il modo di preparare certi alimenti. Scabin afferma che c’è ancora poca tecnologia in cucina ed io condivido il suo pensiero, ma non so se questo sia un bene o un male: i piatti sono ancora eseguiti in maniera tradizionale e le sifonate le abbiamo lasciate ai primi anni Duemila e adesso stiamo lavorando su altro.

Il cliente, secondo me, sta cambiando il modo di mangiare perché siamo noi cuochi ad offrire una carta e un menu degustazione che invita al cambiamento ed è una cosa positiva che se ne scriva e se ne parli.

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D: Un’ultima richiesta, raccontaci un piatto che ami particolarmente o un aneddoto su un piatto.

R: Molti piatti che sono nati per lo Zafferano sono legati a mia figlia Cloe, alle serate di quest’inverno appena trascorso, attorno a un tavolo, studiando i grani antichi con mia moglie Nancy. È in questi momenti che mi vengono in mente ricette nuove: sono seduto con Cloe in braccio che disegna con le sue matite colorate che mi fanno venire in mente i colori di cibi e spezie, prendo la mia agenda e rubo qualche matita a mia figlia. È così che è nato uno spaghettone risottato con cipollotto rosso fondente accompagnato da gamberi, zenzero, limone femminello e chiuso con una spolverata di pepe del Sichuan che ricorda i chiodi di garofano senza i chiodi garofano. Oppure lo spaghettone ”all’aglio e olio di mare”, con l’estrazione a caldo dell’acqua di cozza, spinto con una codina di alice e chiuso con la mollica di tarallo pugliese e caciocavallo ragusano.

Bravissima Cloe!

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Scienze, tecnologia, alimentazione, content marketing e social media sono le mie passioni. Suggestioni e progetti il mio motto. La cultura digitale non è tutto, ma la punteggiatura corretta è fondamentale. Se volete davvero commuovermi mostratemi un'astronave sullo sfondo degli anelli di Saturno o una burrata fresca di caseificio; non necessariamente in quest'ordine.

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